LO STORYTELLING D’IMPRESA

“Lo Storytelling d’Impresa e il potere dei racconti”

 

Nell’edizione de “Il Piccolo” di martedì 17 dicembre 2019, abbiamo parlato con Massimo BRUSASCO del “potere delle storie” e di quanto valore possa generare raccontare le nostre sfide professionali e di brand.

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Narrare la propria storia. Suscitare emozioni, coinvolgendo sempre più i propri pubblici esterni. La prima forma di Storytelling è certamente quella delle “pitture rupestri”, in cui l’uomo di Neanderthal, 65.000 anni fa, raffigurava e raccontava storie di uomini e animali.

La verità è che, al giorno d’oggi, ogni impresa ha un profondo bisogno di comunicare per poter sopravvivere ed espandersi in mercati ormai saturi. Mercati in cui regna sovrana la “supremazia di un mondo simbolico discorsivo”.

Nella nostra attività professionale veniamo sovente in contatto con aziende e persone che, pur essendo coscienti di avere alle spalle una lunga storia aziendale o professionale, non comprendono come essa possa essere un potente mezzo per comunicare con i propri stakeholders e, conseguentemente, conquistare e coinvolgere la propria clientela.

La nostra consulenza si concentra anzitutto nel comprendere quali sfide, quali difficoltà, quali insuccessi, quali vittorie e progetti stanno alla base di quell’attività aziendale o professionale. In tal modo è per noi possibile individuare quegli elementi di “cultura imprenditoriale” e quei “valori” che, di quella storia, riusciranno a dipingerne un ritratto che produca “legami di alta intensità emotiva”. Altro aspetto importante che trasferiamo alle nostre controparti è il far comprendere la natura di questa delicata relazione che si vuole instaurare. Relazione che si articola su tre dimensioni: il brand, il prodotto e le persone. Persone, non consumatori. Esseri complessi, dotati di una delicata psicologia, fondata su di un articolato sistema di valori, aspettative e desideri. A noi il compito di utilizzare quell’Empatia in grado di valorizzare quei desideri e quella bramosia di cambiamento tanto caldeggiata.

Raccontarsi, vuol dire “relazionarsi con qualcuno”, che potrebbe avere interesse verso di noi, la nostra azienda e i nostri prodotti. E’ il nostro “target”, cioè quelle persone che si dimostrano sensibili alla nostra storia, alla nostra filosofia del fare impresa, ai nostri valori e ai prodotti che produciamo.

Ma, quali sono gli obiettivi che ci prefiggiamo nel raccontarci ai pubblici esterni?

In primis, Persuadere ad acquistare i nostri prodotti; Aumentare la componente emozionale legata al nostro prodotto; Appassionare all’esperienza del consumo; Orientare la clientela attraverso racconti creati ad hoc; Creare una “risonanza emotiva” e, infine, Raccontare la propria storia e i propri valori. Unici, perché solo nostri.

Da qui iniziamo a comprendere come sia possibile “guidare i consumi” tramite il controllo dell’impulso irrazionale di acquisto compulsivo.

Caso emblematico è quello di Harley Davidson, che ha saputo creare attorno al suo brand proprio quel “senso di appartenenza” che spinge ad acquistare una “Harley” anche se si avrebbe più bisogno di un piccolo e maneggevole scooter. Lo si fa per entrare in un mondo, per sentirsi parte di quel gruppo di persone che da quella appartenenza traggono gratificazioni, emozioni, sensazioni uniche e autorealizzazione. Così è nato un mito.

E’ allora vero che, tramite un racconto, possiamo “produrre valore”. Tra le quattro forme di capitale identificate da Pierre Bourdieu negli anni settanta – economico, sociale, culturale e simbolico – oggi possiamo annoverarne una quinta, il “capitale narrativo”.  Formato dalle storie di impegno e di coraggio per le scelte fatte, dai rischi corsi, dai dubbi che ci hanno assalito, dai fallimenti e, infine, dai successi che siamo riusciti ad ottenere.

Con tale accezione, la narrazione diviene allora un processo di “sense making”, in grado di collegare gli eventi professionali che ci caratterizzano, con le rappresentazioni dell’esistente, cioè la nostra azienda, i nostri prodotti, il nostro brand.

Pensiamo alla storia di un imprenditore che ha fatto la storia dell’imprenditoria italiana nel mondo: Giovanni Rana. Ancora la settimana scorsa, durante una conferenza in Assolombarda a Milano, ci raccontava con emozione la Sua storia. Sempre quella, fatta di sfide, di difficoltà affrontate e vinte, di fatica e di sogni che, ai più, sembravano folli e irrealizzabili. Il Suo simbolo? Un “motorino Guzzi” di colore rosso, con cui faceva le prime consegne. Nei tortellini di Giovanni Rana, non vi è solo il ripieno di carne, pesto o verdure, ma vi è tutta la sua lunga e affascinante storia. Che gli ha consentito di entrare nelle case dei consumatori di mezzo mondo.

Oggi, i racconti sono utilizzati come “vettori di commercio e di consumo”. E’ indubbio che l’atteggiamento odierno del consumatore è quello di “comprare e consumare il racconto della marca” e del suo prodotto, condividendone i valori e la visione di vita che viene proposta.

Ma, che succede se la nostra storia non tocca le note che creano “engagement emozionale” nella nostra clientela potenziale?

Nel 2012 la maison CHANEL ingaggiò Brad Pitt per pubblicizzare il suo “parfum numéro cinq”. Quale miglior testimonial per persuadere il pubblico femminile ad acquistare il profumo più amato dalle donne. Risultato: milioni di euro investiti in un “flop” colossale. Perché? Inesorabilmente, i valori del marchio ruotavano attorno al concetto di femminilità, non incarnati da Brad Pitt. Come ne uscirono? Riesumando un mito fondativo della maison, che nel 1953, in una intervista alla rivista Life, dichiarò:

“…di notte, al posto del pigiama, indosso solo Chanel N. 5!

Ogni donna si era immedesimata in Marylin e in quell’emozione di potersi vestire solo con un profumo. E successo fu!!

   Allora, merita una seria riflessione quanto affermato dal manager scrittore statunitense Seth Godin:

Il marketing non riguarda più le cose che fai, ma le storie che racconti”.