Un eterno dibattito. Una questione ancora aperta e, per molti versi, non chiaramente definita nella sua essenza più intima. Antico fascino a cui molti, ancora oggi, non sanno resistere. Quale? Quello di porsi con arroganza e superiorità, per sentirsi forti ed importanti. Tutt’altro modo di porsi è quello di esercitare una leadership fondata su di un valore indispensabile: interagire con i propri collaboratori con quel “savoir faire” che crea compliance e stimola le persone a dare il meglio di se.
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Partiamo da un assunto Lapalissiano, secondo il quale “uno strumento indispensabile per il successo è l’aggressività“. Solo quando si è arroganti, altezzosi e scortesi si può avere successo. Non vi sono alternative. Ma è proprio così?
Lo stile di leadership che, per molti anni, ha prevalso è stato quello che metteva in primo piano uno stile manageriale aggressivo, forte e intransigente. Insomma, quello che passa su tutto e tutti come fa uno schiacciasassi nel momento in cui crea la sede per una nuova strada. Con una piccola differenza. Gli uomini e le donne hanno una emotività e una personalità che devono essere incentivate e rispettate.
A riprova di questo, vi sono numerosi esempi di manager che, pur adottando uno stile aggressivo e arrogante, non sono riusciti a conquistare la fiducia dei propri collaboratori, fallendo sia dal punto di vista professionale sia, ancor di più, sotto il profilo umano. Segno chiaro della necessità di possedere ed utilizzare altre doti nei rapporti con i propri assistenti. Doti che devono ispirarsi alla capacità di convincere, alla forza interiore e alla determinazione nel voler mettere i collaboratori nella condizione di poter esprimere al meglio il potenziale umano e professionale.
Beh, scontata la puntualizzazione dei sostenitori di uno “stile duro e puro“. Se, in ambito lavorativo e professionale, vi ponete con modi affabili e disponibili, non otterrete rispetto e la vostra figura non avrà quel valore aggiunto che solo l’intransigenza vi può dare. Per chi ha fatto il servizio militare, corrisponde esattamente a quell’arroganza che proveniva da alcuni superiori in grado che, proprio in ragione di quel grado, si permettevano comportamenti arroganti e vessatori che culminavano con una potente quanto demenziale affermazione: “la sbatto dentro“. Che grande umiliazione….per chi quei comportamenti li teneva. Chiaro vero!
Quando parliamo di una Leadership Gentile, intendiamo quei comportamenti che si fondano su di un animo disponibile e che, da quella disponibilità, origina comportamenti concreti e rispettosi dell’altro. Parliamo di quella generosità che non ha timore di fare un elogio quando un collaboratore se lo merita. Parliamo di quella disponibilità che si traduce in un rimprovero fermo e rispettoso, dove una seconda possibilità viene accordata comprendendo che si può sbagliare. Guardando con occhi sinceri una persona. Trasmettendole quella sincerità e quella lealtà che sono in grado di spronare a far meglio. Consci che solo così si può valorizzare una persona, spronandola a dare il meglio di se in ambito lavorativo, perché apprezzata e considerata.
Non va nascosta la nostra più intima natura che, per genetica evoluzione dall’uomo preistorico, ci porta a stare sulla difensiva e pronti all’attacco in molte situazioni. Predisposizione che, troppo spesso, ci porta ad essere rigidi, poco tolleranti, ipercritici e non disposti ad un dialogo fondato sull’effettiva disponibilità ad ascoltare il nostro interlocutore. Si, “ascoltare“. Non solo parole, ma anche modi di esprimersi, gesti ed espressioni che accompagnano la parte verbale. Cercando di mettere a proprio agio i nostri collaboratori. Essendo in grado di cogliere quello stress vocale che denota una eccessiva emotività in chi abbiamo di fronte. Liberando il campo da quel timore che toglie lucidità anche alle persone più motivate ed efficacia ad un lavoro svolto con passione.
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“La gente non ascolta, aspetta solo il suo turno per parlare” (Chuck Palahniuk)
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Effimera la sensazione di essere un buon leader solo perché i nostri assistenti ci temono e ci rispondono sì per puro timore. Una doppia sconfitta sia come professionista che come essere umano. Manifestazione di forza o di debolezza? Senz’altro la seconda. Debolezza perché si cerca di evitare il dialogo, nascondendosi dietro alla presunzione di essere, sotto tutti i punti di vista, superiori. Non accorgendosi che si evita il dialogo solo perché non si è in grado di sostenerlo.
La gentilezza a cui alludiamo è quella che ci consente di aiutare chi ci sta vicino a crescere con noi, aiutando concretamente la risoluzione dei molti problemi che la vita e il lavoro ci pongono ogni giorno. E’ anche quella che ci mette in grado di capire lo stato emotivo di chi ci sta di fronte.
E, se dovremo dire uno o più NO, lo faremo senza arroganza e con rispetto. Non criticando, ma cercando insieme soluzioni che risolvano quel problema. Fornendo quel supporto fondamentale per far si che, chi ha sbagliato, creda ancora in se stesso e nelle proprie capacità. Non sentendosi umiliato ma, anzi, incentivato a far meglio.
Ascolto ed Empatia. Due ingredienti basilari per dare alla nostra leadership un valore aggiunto ed unico: quello di saper valorizzare le capacità e la personalità dei nostri collaboratori. Liberando il campo da quella soggezione che toglie spontaneità e genuinità ad ogni rapporto. Solo così possiamo far crescere le nostre realtà lavorative. Solo così possiamo crescere umanamente anche noi.
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“Si può essere stanchi di tutto, ma non di capire” (Virgilio)
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